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dal 10 marzo all'undici maggio 2008
Mimmo Paladino & Brian Eno - Opera per l'Ara Pacis
Opera per l’Ara Pacis è un’opera site specific modellata dal ruolo determinante della luce, in un continuo passaggio dal flusso luminoso, che accarezza e non aggredisce i lavori, all’oscurità.
Un viaggio visivo e sonoro attraverso le sperimentazioni di Brian Eno (Woodbridge, 1948) con le sue “scorribande e il nomadismo tra i rumori della vita e la tecnologia” -come afferma Bonito Oliva, uno dei curatori della mostra- e le sculture migranti di Mimmo Paladino (Paduli, 1948; vive a Paduli e Milano).
“L’Ara Pacis dovrebbe celebrare la pace dopo la guerra, in realtà qui non c’è stata guerra, ma un felice conflitto tra linguaggi -arte e musica- per approdare ad un armistizio”, continua Bonito Oliva. “Da una parte Paladino con una sorta di O perfetto di Giotto, plastico e tridimensionale, ci avverte che al di sotto c’é un’arte contemporanea sotterranea che fermenta e che dà una funzionalità diversa al passato. Brian Eno ha ben recintato in maniera stereofonica lo spazio in cui avviene l’apparizione dell’opera di Paladino, sviluppando anche un’integrazione con l’opera antica: con un po’ di attenzione potrete ascoltare voci che nominano i fiori che sono scolpiti sui reperti dell’altare”.
Un’atmosfera solenne, a tratti cupa ma sempre raffinatissima, pervade lo spazio del seminterrato, dominato dalla grande installazione Treno. La memoria rimanda alle antiche cripte con le loro sepolture, come pure al deposito di un museo archeologico (prendendo in prestito, stavolta, il suggerimento di un altro curatore, James Putnam). Paladino, che per l’Ara Pacis nella nuova versione di Richard Meyer ha ideato il grande mosaico realizzato da Costantino Buccolieri, è da sempre interprete dei materiali poveri che, in questo contesto, si concretizzano nella terracotta, nel legno, nel bronzo, nel ferro con la patina di ruggine.
Mimmo Paladino & Brian Eno - Opera per l’Ara Pacis - 2008 - photo Ferdinando Scianna - (c) Magnum Contrasto
Costruita nel suo studio di Paduli, la struttura metallica di Treno è poi stata trasportata nel laboratorio di ceramica di Faenza. Nel forno, a temperature altissime, l’argilla si fonde con il metallo, dando luogo a un insieme unico, modulato dalla forma dei corpi accoccolati in posizione fetale sparsi tra i residui della civiltà moderna: forme di scarpe, cappelli da uomo, tegole, fucili.
Quanto al musicista inglese che, ricordiamo, ha una formazione accademica in pittura, malgrado abbia lavorato al progetto attraverso la mediazione delle fotografie di Ferdinando Scianna -chiamato a documentare iconograficamente l’installazione-, è riuscito perfettamente nell’intento di “animare” la scultura, “liberando qualcosa di profondamente sepolto in essa”, come afferma Putnam. “Eno utilizza il pianoforte preparato e talvolta sovrappone suoni improvvisi e frammenti parlati che sono messi in ‘loop’”, continua il curatore, “e che dissolvono e assolvono, sono rallentati o velocizzati, amplificati o attenuati fino a risultare dei sussurri”.
Mimmo Paladino & Brian Eno - Opera per l’Ara Pacis - 2008 - photo Ferdinando Scianna - (c) Magnum Contrasto
Insomma l’Ara Pacis è un’“Ara Artis”, come spiega in ultima battuta Abo: “Un luogo di coniugazione, armistizio, duello linguistico tra due artisti di confine, un flusso in cui le arti ristabiliscono fra di loro un matrimonio morganatico”.
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dal 14 febbraio all'8 giugno 2008
Richard Avedon - Fotografie 1946-2004
a cura di Helle Crenzien
Spazio Forma - Centro Internazionale di Fotografia
Piazza Tito Lucrezio Caro, 1 (zona Bocconi) - 20136 Milano
1946-2004: è questo l’orizzonte scandagliato dall’occhio intrusivo del fotografo Richard Avedon (New York, 1923 - San Antonio, 2004).
Cinquant’anni di storia e personaggi che restituiscono un luminoso ritratto del mondo occidentale post war. Duecentocinquanta circa le fotografie esposte da Forma, a testimoniare un lavoro versatile, consumato insieme a poeti, scrittori, musicisti, artisti.
Le fotografie di moda -a lungo le uniche a destare attenzione- introducono la mostra, aprendo una finestra sulla Parigi del secondo dopoguerra, in corsa per tornare a essere la capitale della haute couture. Con “Harper’s Bazaar”, l’artista ha l’occasione di scardinare l’obsoleta estetica imperante e di osare con scatti come la celebre Diovima e gli elefanti al circo d’inverno. Abito Dior, 1955, dove alla leggerezza della seta contrappone la pelle ruvida dei pachidermi, inaugurando un’ambientazione del tutto inedita. Richard Avedon - Bob Dylan, musician - Central Park, New York, February 10, 1965 - gelatin silver print - cm 35,6x27,9 - (c) The Richard Avedon FoundationGià da questi fotogrammi si evince la precisa volontà e capacità di creare “immagini”, alla maniera di un regista (a ispirarlo è l’ungherese Martin Munkacsi, che aveva visto scegliere come sfondo un albero di New York solo perché aveva la stessa corteccia di quelli che si trovano sugli Champs-Élysées).
Gli anni ’50, ’60 e ’70 (e fino a oggi), sono raccontati nei ritratti delle star -Marilyn Monroe, Bob Dylan, Dinensen, Eisenhower, Malcolm X, Ezra Pound, Beckett, solo per citarne alcuni- che trovano spazio intorno alla gigantografia di Warhol con la Factory.
Approfondendo la ricerca sul ritratto, iniziata nei primi anni ’40 come fotografo di identikit per la marina mercantile, Avedon mette a punto un modello “da studio” attraverso il quale affronta, come su un ring, i suoi soggetti. Lo sfondo è bianco, lo sguardo è quasi sempre fisso sull’obiettivo; i bordi del negativo incorniciano lo spazio, neri, come in un ciak (la devozione al cinema traspare nella dinamicità dei corpi). I volti colpiscono per intensità lo spettatore, che li avverte presenti: lo scambio di emozioni trasmesse tra il fotografo e le sue vittime trasuda la fatica e l’aspettativa dei divi, pericolosamente ma gloriosamente finiti sotto il suo obiettivo. Avedon si appropria della superficie per rivelare l’immagine che desiderano riflettere di sé, restituendo il frutto di un’intesa complice, piuttosto che una pretesa di realtà (la serie sul cancro del padre ne è un esempio).
A chiudere è il ciclo In the American West (fine anni ’70-inizi anni ’80, 752 persone ritratte, 125 fotografie selezionate), Richard Avedon - Dovima with elephants, evening dress by Dior - Cirque d’Hiver, Paris, August 1955 - gelatin silver print - cm 152,4x121,9 - (c) The Richard Avedon Foundationdove Avedon innalza sul suo piedistallo l’uomo comune, combinando il ruolo di co-creatore di immagini con quello di documentatore. La relazione con quei ragazzini allegri ritratti per le strade d’Italia negli anni ’40 e con i volti amari dei berlinesi nel capodanno del 1989 esiste, seppur nelle differenze, nell’unicità di un punto di vista mai scontato, che non pretende di essere assoluto, ma è sempre estremamente personale.
Fedele alle sue ultime volontà, la scelta di congedare lo spettatore con il suo riflessivo (e triplice) autoritratto. Dove ciò che vediamo è, per l’ultima volta, ciò che lui aveva deciso di mostrare.
fonte: www.exibart.it